E’ bello quando un disco ti prende al punto di rendere complicato tirare giù qualche riga che abbia un minimo senso compiuto e che non sia il solito sborrare di commenti über positivi che non riesce a darsi un limite. Quest’anno mi è successo con almeno due dischi, ed essendo il prossimo disco dei Prawn in previsione per gennaio 2014 potrei azzardare che le probabilità che mi possa accadere ancora da qui a fne anno siano basse. Volendo mettere i doverosi puntini sulle i, per ‘tanto’ intendo un disco che dia la spinta finale per prendersi di buon animo, mettere le scarpe alle 11 di sera e camminare finché il disco non è finito, sebbene sia la milionesima volta che lo si ascolta; la spinta per allungare di 10 minuti la strada in macchina per poter risentire un paio di canzoni; la spinta necessaria per avere voglia di parlare del suddetto disco senza sapere bene quali tasti spingere. Whenever, If Ever ci riesce benissimo in tutte tre le discipline. Ulteriore puntino sulla i è che questo post sarebbe dovuto essere più lungo perché avrebbe dovuto contenere anche un’intervista a cui i The World ecc non hanno mai risposto, ma le stesse domande grosso modo sono state poste loro nell’intervista contenuta dentro a Manual Dexterity, reperibile in .pdf all’interno della compilation digitale della Topshelf. Nel caso, ho una mail che prova il mio dire il vero ed un post comunque troppo lungo.
È passato un sacco di tempo da quando Whenever, If Everè uscito. C’è stata la storia del leak due settimane prima della data di release ufficiale, c’è stato un picco di vendite che ha portato la Topshelf per la prima volta in una classifica di Billboard e poi Pitchfork che appena ha visto qualche nome ripetersi in qualche blog ha iniziato ad interessarsi e a parlare di un qualche revival del ‘genere’ senza, o con poca, cognizione di causa. Tutta una serie di cose che l’hanno portato alle orecchie di un numero di persone con cifra a qualche zero più del previsto. C’è stato, insomma, tempo sufficiente per ascoltarlo fin troppe volte prima di parlarne.
In primissimo luogo Whenever, If Ever parte da un presupposto a cui penso ogni volta che lo ascolto, un discorso che mi ha fatto mio babbo mille volte quando ho iniziato a suonicchiare: non suonare troppo, non esagerare. Ci sono arrivato crescendo, ovviamente a 16 anni vuoi menare i tamburi come un idiota, poi con il tempo capisci l’importanza delle pause, dei silenzi e del senso di suonare non come soddisfazione del singolo, ma di un tutto orchestrato per un fine collettivo. In questo disco ho capito per l’ennesima volta il succo del discorso e mi prostro davanti alla bravura nel non incasinare tutto con quella quantità di carne al fuoco. Da un lato pragmatico, i The World ecc sono in nove (nelle prime registrazioni erano in cinque, poi in sei), con tre chitarre, un violoncello, un synth ed eccetera, ma tutto il disco suona compatto e non c’è mai quella sensazione di troppo che disfa la struttura (addirittura il secondo video è di una canzone senza base ritmica, per dire). Il tutt’uno inteso come gruppo che suona contemporaneamente e sa crescere e diminuire in base all’atmosfera della canzone, sa dove mettere i piedi e lo fa in armonia senza aver mai nulla di troppo. I giri di breakdown di Heartbeat In The Brain sono la dimostrazione del concetto: il violoncello che doppia la chitarra ritmica e la batteria che ci gioca sopra prendono la natura quadrata del modello, ne ristrutturano la composizione e pezzo per pezzo montano un intreccio che sale nel petto fino alla coda della canzone. A livello generale le voci, una principale e due a supporto, senza contare tutti i cori e i singalong vari, salgono con sapienza ed il synth sa quando deve suonare come tappeto o come accento e quando spiccare sul resto con riff semplici semplici. Gioco, ma soprattutto ottica, di produzione, perché Chris Teti, il chitarrista che suona la tromba – altro fattore che accomuna parte della nuova scena emo, per quanto sia obiettivamente riduttivo chiudere i TWISA dentro quella scatola – ha lo studio di registrazione dove incidono, per cui una componente che funziona a loro favore sia in comodità che ‘in produttività’.
Lato pratico a parte, il senso di unione è anche e soprattutto la stretta di mano che unisce tutte le dieci canzoni in un compatto corpus da ascoltare dall’inizio alla fine per gustarlo per bene. È complicato spiegare la parte musicale senza fare la figura della fighetta che parla di rinascita, di nostalgia, di quello di cui parlano in primis i loro testi, però è così: il disco emana nostalgia e ‘faccio questo perché mi piace, anche se devo restare seduto su un furgone per 9 ore andando lontano da casa e suonare davanti a 2, 7 o chissà quante persone, come quando la mia band ha aperto per i Finch e per i Brand New’. Mi consola ricordare che tutte le recensioni lette hanno almeno un paio di righe ciascuna in cui l’intestatario del pezzo ammette di avere avuto difficoltà nel dover sciorinare cose sensate descrivendo come suonano i The World Is A Beautiful Place And I Am No Longer Afraid To Die. Voglio provare a metterla così: la settimana scorsa dopo tentativi rinviati da pigrizia e poca motivazione ho ripreso le bacchette in mano per fare qualche esercizio. Su youtube ho trovato un video a caso di una lezione di paradiddle, perché andare a cercare i metodi cartacei era troppo faticoso, ed il tipo del video diceva che il nome dell’esercizio è onomatopeico, infatti la sillabazione del termine equivale al ‘movimento’ che devono fare le bacchette sul tamburo. Ora, il nome lunghissimo della band non è onomatopeico, ma è la descrizione perfetta per quello che suonano e quello di cui parlano le loro canzoni.
Ok, messa giù facilissima, cerco di correggere il tiro. La patina dell’abbondanza strumentale sembra portare subito ad un generico post rock. Le chitarre confermano e negano. La voce è nasale. Le canzoni durano pochissimo o dai 4 minuti in su, senza avere un bilanciamento ma attaccandosi l’un l’altra. C’è un tastabile rimando a tutto l’emo vecchio (o almeno certe frange delle vecchie ondate), la vicinanza alle cose più recenti e certi richiami allo screamo. I The World Is A sono un gruppo di/del genere come punto di partenza sulla cartina per procedere poi per una strada loro. Se l’emo di solito si chiude in sé stesso a fare piani su un foglio di carta questo è come dovrebbe suonare il sentirsi a proprio agio andando a fare quello che fa stare bene assieme ad altre persone, l’azzardare, il sentire nostalgia di qualcosa, sentire la lontananza mentre si è in movimento verso il proprio obiettivo, quello che si è felici di fare sebbene le avvertenze e le difficoltà che si potrebbero incontrare. Nell’intervista chiedevo se ci fosse un qualche filo logico a trama delle canzoni e se Gig Life fosse una specie di manifesto del concetto che ho appena tentato di spiegare. In cuor mio fingo di aver ricevuto una risposta che conferma la mia ipotesi, che la parte post rock del suono sia il guardare fuori dal finestrino quando loro nove sono stipati dentro ad un furgoncino mentre guidano verso la città in cui devono suonare così come l’ho interpretata, con l’eterno dubbio della vita che hanno deciso di fare, se è quella giusta oppure meno – tale quale come risulta in superficie o come metafora che nasconde altro scavando in profondità. Entrambe le cose quindi: post rock ed emo che si corrono incontro, sbattono la testa e si rialzano per andare là e scrivere canzoni.
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